La nascita della Ducati Paso

La nascita della Ducati Paso

Dalla matita di Tamburini, negli anni dell’incontro tra Cagiva, Ducati e Bimota, nasce il Paso, capostipite delle “Rosse di Borgo Panigale”.

Romagnolo purosangue, Renzo Pasolini nacque a Rimini il 18 luglio 1938: figlio d’arte e, come per molti di quelle parti, con il destino già segnato fin d’allora.

La sua escalation come pilota di velocità caratterizzò gli anni Sessanta, all’insegna di duelli epici con il leggendario Agostini, senza purtroppo giungere mai all’apice.

Infatti, fu in un tragico 20 maggio 1973 che al GP delle Nazioni di Monza, proprio al debutto della nuova HD350 che avrebbe certamente portato “Paso” sul podio mondiale, un incidente, dalle cause ancora non del tutto chiarite, portò via, in un colpo solo, il pilota romagnolo e Jarno Saarinen, nuovo talento emergente del motociclismo.

Questa pagina nera dello sport mondiale segnò duramente l’animo degli appassionati delle corse e degli estimatori dei due piloti, la cui memoria negli anni a venire fu onorata con delle motociclette che portarono con orgoglio il loro nome.

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Il Paso nasce nella cilindrata di 750 cc e si evolverà fino a oltre 900. A caratterizzare la veste estetica è la presenza della carenatura integrale, mentre a livello ciclistico l’avantreno è dominato da una larghissima ruota di 16 pollici (sotto).

Qui, evidentemente, andremo a parlare di quella Ducati che tanto fece parlare di sé a metà degli anni Ottanta, grazie a un motore di derivazione sportiva, un’estetica del tutto particolare e l’affettuosa denominazione “Paso”.

Al di là di ciò che rappresentò come motocicletta, il Ducati Paso ha una valenza particolare, dal momento che fu un modello significativo per la sopravvivenza e la rinascita del Marchio bolognese dopo la tremenda crisi dei primi anni Ottanta.

In realtà, la vera salvezza per la Casa di Borgo Panigale venne dal Nord, sotto le spoglie dei fratelli Castiglioni e della Cagiva.

La Casa di Schiranna aveva infatti interesse a ottenere una sostanziosa fornitura di propulsori bicilindrici per i suoi modelli di punta, nell’ordine di decine di migliaia di pezzi, mentre nel medesimo frangente la Ducati navigava in pessime acque, con la prospettiva di chiudere i battenti di lì a poco.

Fu grazie all’intesa tra i due marchi italiani che, da una parte, Cagiva poté commercializzare le sue Elefant e Alazzurra e, dall’altra, Ducati riuscì invece a riprendersi felicemente (come tutti oggi sappiamo). Questo accordo maturò alla fine nell’acquisto del Marchio bolognese da parte dei Castiglioni.

Iniziavano così gli altalenanti anni della gestione Cagiva, che non portò solo un nuovo logo sui serbatoi Ducati, ma anche nuova linfa vitale, non solamente in termini economici.

I costosi e complicati bicilindrici a coppie coniche vennero messi da parte, mentre felice fu l’intuizione di dedicarsi allo sviluppo del propulsore progettato da Taglioni, il Pantah a cinghia dentata, che mostrava evidenti prospettive di miglioramento ed evoluzione.

La 750 F1, infatti, l’ultimo vero prodotto voluto e concepito a Bologna, aveva mostrato sulle strade e in circuito le enormi potenzialità del progetto: abbandonare questa strada sembrò da subito un errore da non commettere assolutamente.

Il cupolino privo di plexiglas e il gruppo ottico di derivazione automobilistica, con gli indicatori di direzione integrati negli specchietti caratterizzano la parte frontale.

Castiglioni avrebbe voluto poi che il primo frutto della nuova gestione fosse una moto memorabile e dai contenuti esclusivi: per questo si rivolse alla Bimota per la realizzazione del nuovo modello.

La fabbrica riminese era, allora più che mai, un atelier votato alla costruzione di piccoli gioielli di meccanica, poco adatti alla grande produzione di serie; pertanto, fu quasi da subito evidente che il costo finale e la destinazione d’uso della nuova moto non si sarebbero certo sposati con le necessità della Ducati di allora.

Il progetto fu pertanto accantonato e la Bimota lo ultimò autonomamente realizzando di lì a pochi anni la capostipite di una fortunata serie: la celebre DB1. Tuttavia, qualcosa di Bimota era destinato a rimanere anche nella nuova Ducati: stiamo parlando del designer Massimo Tamburini (e scusate se è poco).

Passato nel 1985 a pieno titolo al reparto ricerca e sviluppo della Cagiva, che si sarebbe poi evoluto nel celebre CRC (Centro Ricerche Cagiva), Tamburini disegnò una linea assolutamente innovativa per la neonata creazione, che si discostava in molti tratti dall’idea tradizionale di motocicletta.

Anzitutto, la presenza di una carenatura integrale aveva una triplice intenzione: definire un’estetica peculiare di impronta quasi “automobilistica”; assicurare un’ottimale resa aerodinamica; ridurre la rumorosità meccanica garantendo, nel contempo, il raffreddamento del propulsore e la dovuta accessibilità.

Come ben sappiamo, non tutti questi propositi vennero attesi. Ad ogni modo il risultato finale, cui finalmente fu dato il nome di Paso (caro a Tamburini anche per la diretta conoscenza del compianto amico e campione), risultò incontestabilmente notevole.

Il cupolino esteso, con la parte che di solito è in plexiglas realizzata viceversa in tinta e tutt’uno con la carrozzeria; gli specchi aerodinamici integrati nel disegno della carenatura e recanti gli indicatori di direzione anteriori sul dorso (forse la prima moto in assoluto ad adottare questa soluzione); la sella plasmata anch’essa secondo la volontà del progettista e non più elemento a sé, così come l’intero gruppo ottico posteriore… solo per citare i tratti salienti, lontani certo dalla sportività estrema dei precedenti modelli Ducati, ma in grado di segnare certamente l’esclusività del blasone.

In realtà, il telaio nascosto sotto tanta grazia tradiva in un certo qual modo la filosofia e la tradizione Ducati.

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Il modello 906 privo delle sovrastrutture posteriori. Si noti la struttura in traliccio
di tubi a sezione rettangolare, assolutamente atipica per la produzione di Borgo Panigale.

Infatti, seguendo le orme di un progetto sviluppato per una famosa casa giapponese, esso non adottava la tradizionale architettura a traliccio di tubi tondi in acciaio con motore portante, ma definiva una struttura a doppia culla in tubi a sezione quadra, evidentemente in controtendenza con la tradizione bolognese.

Niente più repliche di moto da corsa, solo Paso, un modello che con criteri odierni potrebbe calarsi nel cosiddetto segmento delle “sport-tourer”, anche se l’anima era chiaramente pura e sportiva.

Qualcuno vide proprio in quella moto per la prima volta il paragone con le “rosse” di Maranello, e sotto questo aspetto si può dire che la strategia di Castiglioni ebbe successo, identificando, diversamente da prima, il marchio Ducati con un colore ben definito e partecipando a creare l’odierno stereotipo delle “Rosse di Borgo Panigale”. In questo senso, forse, proprio allora si legittimò il parallelo con le altre “Rosse” nazionali: inutile negare, infatti, una certa affinità tra il Paso e la Ferrari Testarossa di Pininfarina.

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La versione 907 ie, dotata di raffreddamento a liquido e iniezione elettronica. I cerchi, in questo caso sono entrambi da 17 pollici, mentre l’impianto frenante anteriore prevede dischi flottanti da 320 mm e pinze a quattro pistoncini.

Alla resa dei conti, il vero punto di merito del Paso fu, al di là della rottura con la tradizione, l’aver portato il marchio Ducati al di fuori della stretta cerchia di appassionati sportivi, rendendo possibile di fatto la ripresa economica dell’azienda in un periodo veramente buio.

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