Il bicilindrico parallelo Ducati

Il bicilindrico parallelo Ducati

Il bicilindrico parallelo è un motore che nasce in una fase di transizione della Ducati. I primi esemplari erano affetti da problemi seri.

Frantoio: basta il soprannome che fu affibbiato ai bicilindrici paralleli per capire quali fossero i problemi e la considerazione in cui erano tenuti dai ducatisti e non. Del resto, quando un progetto parte su basi sbagliate è veramente improbabile che si giunga a un epilogo felice.

Ma facciamo un passo indietro: siamo a metà degli anni Settanta e il primo bicilindrico a L, quello a coppie coniche, sta per lasciare il campo a un nuovo motore, il Pantah con distribuzione a cinghia: nel mezzo, però, fra i due capolavori di Taglioni, la dirigenza Ducati dell’epoca (che allora era statale, del Gruppo Efim) decide che è arrivato il momento di realizzare un motore bicilindrico parallelo, nonostante il netto parere negativo dell’Ing. Taglioni.

Non è che tale configurazione fosse una novità per Ducati: il primo propulsore con questo layout risale al 1957 ed era la 175 cc che Leopoldo Tartarini portò in gara nel Motogiro d’Italia di quello stesso anno.

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Il modello raffigurato in foto è un 350 Sport dotato di distribuzione Desmo. Di questa cilindrata, Ducati produsse in totale 3054 esemplari: 930 GTL, 958 nella versione GTV e 1166 come 350 Sport.

Ma torniamo a metà degli anni Settanta, con l’azienda bolognese che naviga in acque piuttosto agitate: la dirigenza decide di puntare su una nuova gamma di modelli motorizzata con motori bicilindrici paralleli e monocilindrici a due tempi: l’obiettivo era di produrre moto di basso costo e alti volumi di vendita.

In realtà, il tutto nacque sotto l’egida di una parola che fa sempre tremare tecnici e appassionati: “risparmio”.

Si pensò, infatti, per la sua realizzazione di utilizzare la gran parte degli attrezzamenti fino ad allora impiegati per la produzione del classico monocilindrico Ducati, pensando così di diminuire i costi rispetto al bicilindrico a coppie coniche: in pratica, accoppiando due mono qualcuno pensò di abbattere notevolmente il costo di produzione del motore.

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Come detto, Taglioni rabbrividì di fronte a tale proposta, da lui ritenuta giustamente un notevole passo indietro dal punto di vista dell’immagine e della raffinatezza progettuale dell’azienda.

Sembra che il progetto fosse portato avanti da un giovane ingegnere, come ricorda Silvio Manicardi, allora responsabile del servizio assistenza della Casa di Borgo Panigale, da noi intervistato qualche anno fa: “Il problema è stato – ci ricordò Manicardi – che il progetto venne fuori in modo travagliato. Io entrai in Ducati quando i bicilindrici paralleli stavano ormai andando in produzione, pertanto la fase di genesi di questi motori non la conosco, se non per sentito dire. In base a quanto mi è stato riferito, sembra che la responsabilità progettuale sia stata messa in mano a un giovane ingegnere dell’azienda, un neolaureato, il quale, di conseguenza, ha fatto quello che poteva. Io stesso sono laureato in ingegneria, ma appena uscito dall’università non avrei saputo nemmeno da che parte cominciare se mi fosse stato affidato un compito simile!”.

In realtà, sembra che il progetto iniziale, di base, sia stato realizzato dallo stesso Taglioni: il motore da lui concepito aveva misure caratteristiche di 78 mm di alesaggio per 52 mm di corsa, dunque fortemente superquadre, con un singolo albero a camme in testa comandato tramite catena, anziché ad aste e bilancieri.

Si trattava della prima Ducati prodotta in serie con albero motore forgiato munito di cuscinetti a rulli. Questi erano posizionati all’esterno dell’albero motore, mentre in mezzo ai due cilindri non vi era alcun supporto di banco.

Per ridurre al minimo la larghezza del motore, la catena che comandava l’albero a camme passava attraverso una piccola intercapedine tra i cilindri. Inoltre, aveva l’avviamento elettrico, due freni a disco anteriori, ma un tamburo al posteriore, con il richiamo delle valvole a molle, non Desmo: nasce così la GTL, prodotta sia in versione di 350 cc che 500 cc.

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Il motore del bicilindrico parallelo non è certo fra i più belli di quelli usciti da Borgo Panigale! Grosso e tozzo, notevolmente sovradimensionato, era anche caratterizzato da un peso assolutamente spropositato rispetto a quello di altri bicilindrici dell’epoca.

Lo sviluppo del progetto iniziale, come detto, fu però abbandonato da Taglioni, che sicuramente preferì dedicarsi allo sviluppo di quello che poi diventerà il Pantah.

La triste storia del parallelo, quindi, continua con una serie di importanti errori progettuali fra cui l’eliminazione dei contralberi di bilanciamento, inizialmente previsti, la carenza di lubrificazione degli alberi a camme, le copiose perdite d’olio dalle teste: il tutto sempre nel nome di quella terribile parola, “risparmio”.

Storicamente, i motori monocilindrici italiani – ricorda sempre Manicardi – sono stati fatti con la canna più alta della battuta del cilindro, in modo che la testa lavorasse senza guarnizione, affidandosi alla tenuta dell’alluminio. I passaggi dell’olio venivano fatti attraverso dei tubicini interni. Sul bicilindrico parallelo fu adottato lo stesso sistema, solo che tra testa e cilindro, in questo caso, bisognava mettere la guarnizione, visto che in mezzo passava la catena di distribuzione. Solo che così, indipendentemente dal serraggio delle viti che stringevano le teste, quest’ultime o sfiatavano o perdevano olio. Dopo numerosi tentativi, che compresero l’impiego di una pasta rossa della Arexons che veniva usata anche dalla Ferrari, per risolvere il problema furono rifatti i cilindri più alti, furono spianate le teste e vennero adottate le classiche guarnizioni di rame che erano presenti su quasi tutti i motori plurifrazionati dell’epoca. In questo caso, dopo l’intervento, il motore andava come doveva”.

Solo che tali modifiche avvenivano lentamente, con la conseguenza che i bicilindrici paralleli difettati continuavano a uscire dagli stabilimenti bolognesi e andavano a finire nelle concessionarie così come erano stati definiti dalle specifiche iniziali: è quindi facile immaginare quanti mezzi tornassero indietro al servizio assistenza per le riparazioni dopo che le officine sparse in tutta Italia erano letteralmente impazzite nel tentativo di riparare i motori in panne: qui, prima delle soluzioni radicali sopra descritte, il reparto di assistenza si limitava a rimontare i pezzi nuovi, ma non modificati, con il risultato che, dopo poco tempo, si ripresentava lo stesso identico problema!

Anzi, a volte succedeva che i rimedi escogitati in azienda in quel periodo, certo non fra i più brillanti nella storia della Ducati, si rivelassero peggiori del guaio che intendevano risolvere.

Come si dice in Veneto? “Xe peso el tacòn del buso” (è peggio il rattoppo dello strappo)! Così, ad esempio, uno dei problemi più gravi del bicilindrico parallelo, ovvero la carenza di lubrificazione degli alberi a camme, fu “risolto” con dei tappi di alluminio che avevano appunto la funzione di mantenere l’olio dentro le camme. Solo che, con il tempo, questi tappi si muovevano e, consumandosi, mandavano in giro nel motore tanti piccoli frammenti di alluminio, con disastrosi risultati: solo in un secondo momento si pensò di fissarli in modo che non potessero più muoversi.

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Il ponte di comando della Ducati bicilindrica: nonostante tutti i suoi problemi, sia la 350 che la 500 erano dotate di componentistica di buon livello.

Ad ogni modo, dopo aver rivisto profondamente gli aspetti più problematici del bicilindrico parallelo, Manicardi torna a sostenere come l’idea originale non fosse poi così male: “Gli ultimi esemplari che abbiamo prodotto, aggiornati con tutte le modifiche previste, andavano discretamente. Il veicolo stava bene in strada, era ben frenato ed era anche divertente da guidare, solo che ormai i clienti che l’avevano comprato per primi erano davvero esasperati e ne parlavano in termini talmente negativi che l’immagine di questi modelli era ormai irrimediabilmente compromessa e nessuno si sarebbe più arrischiato a comprarli”.

Il bicilindrico parallelo, fra l’altro di aspetto estetico assai discutibile, in quanto tozzo e ingombrante, andò quindi a equipaggiare la 500 GTL che fece la sua prima apparizione nel 1976 con la veste (peraltro oggetto di qualche critica) disegnata da Giugiaro per la 860 GT. Gli scarsi risultati di vendita portarono, nel 1977, alla realizzazione di una versione più sportiva, la 500 GTV, e successivamente alla 500 Sport Desmo (stessa cronologia anche per la cilindrata minore di 350 cc).

La serie Sport Desmo dei bicilindrici paralleli venne commercializzata in giallo per la versione di 350 cc e rosso per la 500. In realtà, i primissimi esemplari della mezzo litro furono allestiti con una livrea di color azzurro metallizzato con filetti bianchi e rossi; a fine serie, invece, ne uscì una versione celeste metallizzata con fregi rossi e neri. Tale modello aveva appunto il sistema di distribuzione desmodromico, oltre a un nuovo telaio con doppio trave discendente e un design curato da Leopoldo Tartarini, ex patron della Italjet: una linea gradevole e piacevole, “rovinata” solo dalla mole del propulsore. Ma ormai, come detto, il danno era fatto: nessuno si sarebbe arrischiato a mettere in garage una moto con una storia tanto infelice e turbolenta, tanto più che, sempre, nel 1977 iniziano i primi test per la stampa di un motore che avrebbe fatto la storia del marchio, ovvero il Pantah, bicilindrico a L con distribuzione monoalbero Desmo e trasmissione a cinghia.

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Questa foto ritrae un bicilindrico parallelo di 350 cc in azione durante una sessione di collaudi sul circuito di Monza. (foto Manicardi)

Tornando al nostro parallelo, alla luce di quanto detto, si capisce come sia di fondamentale importanza, nel caso in cui qualcuno sia interessato all’acquisto e all’eventuale restauro di un modello di questo tipo, scoprire a quale lotto di produzione appartiene l’esemplare in questione, visto che tra i primi e gli ultimi c’è una grande differenza!

Esattamente quella che passa tra il godersi un mezzo con caratteristiche di guida tutto sommato piacevoli e l’imbattersi in un vero e proprio calvario costellato da mille e più problemi di affidabilità tecnica, nonché di complessa soluzione.

Bisogna comunque tenere presenti alcuni difetti intrinseci del progetto, come il fatto che, anche solo per registrare le valvole, sia necessario tirare giù il motore dal telaio! Inoltre, vi è da segnalare la grande difficoltà, se non impossibilità di trovare alcuni pezzi di ricambio, come, ad esempio, i fianchetti laterali.

Da un punto di vista dinamico, queste moto hanno un baricentro alto, con un’altezza della sella particolarmente elevata da terra, così da disorientare un po’ al primo approccio: una volta fatta l’abitudine a questa caratteristica, però, si dimostrano sufficientemente maneggevoli, dotate di una buona frenata garantita dal doppio disco anteriore Brembo e da sospensioni di buona qualità, di una spaziatura del cambio ravvicinata, ottimale per sfruttare le potenzialità in accelerazione del motore.

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La versione 500 Sport, ovvero con la distribuzione desmodromica. Nonostante negli ultimi anni di produzione questa tipologia di moto avesse raggiunto una buona affidabilità, l’avvento del Pantah, oltre a salvare la Ducati, fece sì che si chiudesse per sempre questa infelice parentesi.

Insomma, con un po’ di attenzione si può entrare in possesso di una moto tutto sommato piacevole, che di “frantoio” mantiene solo il vecchio e spiacevole soprannome!

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