Bicilindrico a “L” Ducati: i motivi del successo

Bicilindrico a “L” Ducati: i motivi del successo

Analizziamo i motivi del successo della caratteristica architettura dei bicilindrici Desmo, nata per esigenze di raffreddamento e consolidata negli anni.

Una cosa è certa: i marchi motociclistici più ricchi di fascino e di caratteristiche d’immagine peculiari sono tutti, in un modo o nell’altro, legati al motore bicilindrico.

Le grandi case generaliste, prime fra tutte le quattro sorelle giapponesi, hanno negli anni enumerato una serie interminabile di meraviglie meccaniche, senza per questo riuscire a tracciare in maniera univoca una linea di congiunzione che le caratterizzasse dal punto di vista meccanico. A ben vedere, Ducati, Harley-Davidson, Moto Guzzi e persino Bmw (che ancora oggi produce propulsori in svariate configurazioni oltre al boxer) sono state negli anni via via associate a una particolare architettura motoristica.

Tutti blasoni, cioè, sinonimi di bicilindrico, di grossi pistoni in movimento alternato e di quel rombo caratteristico che nel caso delle moto bolognesi ha dato origine al famoso appellativo di “pompone”.

Se per gli altri tre marchi citati la configurazione con due cilindri gemelli affonda le proprie radici molto indietro nel tempo, per le moto di Borgo Panigale non può dirsi esattamente lo stesso. Infatti, il classico bicilindrico a L è nato “solo” negli anni Settanta e successivamente ha soppiantato ogni altro tipo di architettura nella fino ad allora eclettica gamma bolognese.

Un po’ come è avvenuto per la classica colorazione rossa, oggi sinonimo di Ducati, ma in realtà con una storia molto breve, essendo divenuta uno standard soltanto con le Superbike degli anni Novanta, oppure per il telaio a traliccio, la cui esclusività si è definitivamente affermata proprio in quegli anni.

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Due meccanici del team Ducati Xerox al lavoro sulla 999 di Lorenzo Lanzi durante la stagione 2007. Nell’immagine si distingue bene l’architettura del bicilindrico Testastretta che spinge la Superbike bolognese.

Solo la storia della distribuzione desmodromica ha inizio un po’ prima, quando le moto erano molto più semplici e ci si accontentava di molti meno cavalli senza nulla togliere alla passione e al divertimento.

Il genio di Taglioni ha partorito un progetto che vive ancora oggi nelle moderne Superbike Ducati da oltre 190 Cv!

Già a partire dagli anni Sessanta, il protagonista all’interno della fabbrica di Borgo Panigale era il mitico Ingegner Fabio Taglioni, allo stesso tempo progettista e promotore delle nuove soluzioni tecniche di quel periodo. In tempi in cui la meccanica era ancora essenziale e la tecnologia non forniva un così grande supporto al progettista, ciascuno si sbizzarriva nel ricercare la migliore soluzione tecnica variando soprattutto l’architettura e il frazionamento dei propulsori.

Uno dei punti cardine era quello di riuscire a garantire un buon raffreddamento, allora ancora per lo più affidato all’aria della corsa.

La Moto Guzzi aveva risolto brillantemente questo aspetto disponendo i due cilindri in una V trasversale, in maniera tanto efficiente quanto ingombrante e con la per nulla trascurabile complicazione dell’albero longitudinale. Per mantenere una disposizione più consona a un mezzo a due ruote, l’idea era quella di disporre i cilindri a V di 90° in maniera che uno risultasse pressoché orizzontale e l’altro verticale.

L’esposizione all’aria della corsa sarebbe stata così ottimale per entrambi, avendo unicamente l’accortezza di realizzare alettature differenti (dirette lungo l’asse del cilindro su quello orizzontale e trasversali su quello verticale). Questa visione, in parte rivoluzionaria, si è conservata per tutti questi anni, pur attraverso una serie interminabile di aggiornamenti, modifiche e variazioni. A ben guardare, la prima comparsa di questo schema risale però allo sfortunato propulsore quadricilindrico dell’Apollo, vale a dire al 1963.

La moto, equipaggiata con un enorme motore da 1260 cc di cilindrata, rimase poco più che un prototipo, voluto dall’importatore americano Berliner per concorrere con le Harley-Davidson quale moto di servizio alle locali forze di Polizia.

Alla fine non se ne fece nulla: però, guardando oggi quel mastodontico pezzo di meccanica, non si può fare a meno di notare una concreta anticipazione di quello che sarebbe stato il successo degli anni a venire. Il quadricilindrico, infatti, aveva realmente le fattezze di due bicilindrici a L affiancati (i cilindri erano tutti separati tra loro).

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Il motore della GT 750 prima serie, detto coppie coniche a carter tondi.

Volendo azzardare un parallelo ardito, questa configurazione non sarebbe stata più utilizzata dalla Ducati fino allo scoccare del nuovo millennio, ovvero con la presentazione della fantastica Desmosedici, protagonista di ben altro livello di prestazioni e successi.

Tornando ai primi anni Settanta, sebbene il progetto Apollo fosse stato rapidamente accantonato, l’esperienza maturata durante il suo sviluppo fu della massima utilità per la gestazione, culminata proprio nel 1970, del primo vero bicilindrico a V di 90°, il 500 GP.

Realizzato per le corse, ma con un occhio alla “sponsorizzazione” del nascituro 750 stradale, il bicilindrico da mezzo litro fu inserito in un telaio realizzato ad hoc dallo specialista inglese Colin Seeley.

In verità, la 500 GP raccolse ben poco successo nelle prime sortite con Spaggiari, Giuliano e Reed nelle stagioni del 1971 e 1972. Il motore, per quanto ancora molto lontano dalla metamorfosi che lo avrebbe portato fino ai giorni nostri, già lasciava intravedere misure caratteristiche analoghe a quelle del più famoso e successivo 600, montato fino a pochi anni fa sul Monster.

Pochi ricordano che Taglioni, in quello stesso arco di tempo, realizzò anche una versione con distribuzione a quattro valvole, in tempi non sospetti e decisamente avanzati rispetto a quella che fu la rivoluzione introdotta dall’Ingegner Massimo Bordi verso la fine degli anni Ottanta.

Già, perché anche l’attuale stato dell’arte in casa Ducati, il Testastretta Evoluzione, che ha raggiunto la cilindrata di 1200 cc, è figlio di quel piccolo 500 di 40 anni fa. Gli step evolutivi sono essenzialmente tre, a passi di 10 anni l’uno dall’altro: dal 500 GP (1970) al 500 Pantah (1979-1980) con distribuzione a cinghie dentate, dal Pantah al Desmoquattro (1989-1990) e da quest’ultimo fino al Testastretta (2001-2002).

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Il propulsore della serie Pantah sezionato in ogni sua parte.

Con il passare del tempo il “layout”, per usare un termine moderno, è rimasto il medesimo e, addirittura, alcuni componenti dei motori odierni sono pressoché intercambiabili con quelli di 30 e più anni or sono.

Qualcuno potrebbe vedere una certa “obsolescenza” negli attuali bicilindrici Ducati, ma guardando i risultati si capisce che alla base c’è un progetto realmente indovinato. Ovviamente, specie sui plurivalvole, tutti raffreddati a liquido, le iniziali motivazioni che portarono alla particolare collocazione dei cilindri sono oggi venute meno. Per contro, la grande compattezza trasversale del “pompone” ha permesso di costruire motociclette sempre molto compatte e dalle dimensioni assai più contenute rispetto alle moto di altri marchi.

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Un’immagine importante per la storia del bicilindrico Ducati: Fabio Taglioni e Massimo Bordi (a sinistra) di fronte a un motore montato sul banco prova.

Basta guardare alla sproporzione che affligge alcune delle concorrenti, specie nella sezione frontale: la snellezza di un Monster o di una 1098 (ma anche delle precedenti 916 e derivate) sono semplicemente inarrivabili se dentro il telaio batte un plurifrazionato o un bicilindrico frontemarcia. La particolare architettura ha poi dei vantaggi intrinsechi derivanti dall’angolo tra i cilindri e comuni quindi anche al motore Guzzi e agli altri similari, come anche i “cloni” Suzuki di 650 e 1000 cc.

Del resto, dal punto di vista costruttivo è chiaramente molto più semplice ed economico affiancare due cilindri in un unico blocco, realizzando il cosiddetto motore bicilindrico “in linea” o “parallelo”.

Quando i due pistoni si muovono lungo due assi complanari e paralleli, la variabile è costituita dall’angolo di manovella, vale a dire dallo sfalsamento tra i due stantuffi: questi possono muoversi insieme in fase (sfalsamento nullo, cioè angolo pari a 0°) o in contro fase (angolo di 360°, cioè salgono e scendono insieme, ma mentre uno aspira l’altro comprime e così via).

Oppure, come solitamente avviene, i pistoni si muovono in maniera alternata e l’angolo di manovella è di 180°: mentre uno sale l’altro scende e gli scoppi avvengono di conseguenza. Esistono poi soluzioni realmente controcorrente e, tra queste, quella realizzata dalla Yamaha, con manovelle a 270° a ricreare il funzionamento di un bicilindrico a L (tale è infatti lo sfasamento naturale sulle Ducati, dove le teste di biella sono infulcrate sul medesimo perno): una soluzione, inutile negarlo, nata per emulare il carattere delle sportive di Borgo Panigale e inaugurata sulla TRX 850 degli anni Novanta, che manco a farlo apposta vantava anche un telaio in traliccio di tubi.

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Il Testastretta Evoluzione, qui nella versione con cui viene equipaggiata la 1198 SBK, rappresenta il bicilindrico più evoluto del mondo.

Nel caso dei motori a 0° e 360° il funzionamento è assai differente: il primo si comporta come un monocilindrico sdoppiato (si hanno entrambe le fasi utili ogni due giri dell’albero motore), mentre il secondo ha gli scoppi equidistanti, uno ogni giro dell’albero.

Nel bicilindrico parallelo con manovelle a 180° le forze d’inerzia del primo ordine sono perfettamente equilibrate, al contrario di ciò che accade per le forze d’inerzia del secondo ordine. Per ridurre le vibrazioni è infatti diffusa l’adozione di un contralbero di equilibratura.

L’erogazione della coppia è assai particolare, giacché gli scoppi sono ravvicinati e avvengono uno mezzo giro dopo l’altro nella prima fase del ciclo (ovvero nel primo mezzo giro dei due complessivi che caratterizzano ogni ciclo). Nel caso del bicilindrico Ducati a V di 90° e quindi, simmetricamente, del sopracitato bicilindrico parallelo con manovelle a 270° sono equilibrate le forze d’inerzia di secondo ordine, ma non quelle di primo ordine, per le quali sulla Yamaha è previsto un albero ausiliario. In questo caso, l’erogazione della coppia è comunque più lineare, poiché le fasi utili sono più spaziate. Per equilibrare le forze d’inerzia del primo ordine concordi (quelle discordi restano equilibrate) si rende ad ogni modo necessaria l’adozione di un buon contrappeso.

Qualcosa ci dice che la storia del meraviglioso progetto di Taglioni è ben lontana dalla fine e aspetta solo di scrivere numerose altre pagine di successi nelle vendite, in pista, ma soprattutto nel cuore di milioni di appassionati.

Foto Photoservice Electa e Archivio Mondo Ducati

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