Ducati Indiana: il sogno americano

Ducati Indiana: il sogno americano

L’Indiana è una vera e propria custom con eccezionali doti di guidabilità.

All’interno della storia Ducati, l’Indiana rappresenta veramente un capitolo a sé: si tratta infatti di una vera custom con la quale la dirigenza Ducati dell’epoca deve aver pensato come àncora di salvezza, visto la situazione disperata in cui verteva l’azienda.

“La Ducati Indiana nacque nel periodo nel quale a Borgo Panigale avevamo l’acqua alla gola”

Furono queste le parole di Gianluigi Mengoli quando lo intervistammo per chiedere il suo parere sulla custom bolognese.

Era il 1986, e l’azienda era impegnata al massimo per sfruttare la situazione che si era creata con l’acquisizione del Marchio da parte del Gruppo Cagiva dei fratelli Castiglioni, arrivati con l’intento di riportare la Ducati a gli antichi fasti. 

Anche se la fusione vera e propria era avvenuta nel 1985, tra Cagiva e Ducati esisteva già da qualche anno un accordo che prevedeva la fornitura dei motori per le moto varesine: così il bicilindrico Pantah non solo si era trovato a spingere le stradali Cagiva Alazzurra, nelle cilindrate di 350 e 650 cc, ma anche le Elefant, moto enduro di ispirazione dakariana dal fisico imponente, come voleva la moda di allora. 

Fu proprio dall’Elefant che nacque l’Indiana: il nome evocava sconfinate praterie, strade lunghe e dritte, certamente intrigante per il pubblico europeo, molto meno per quello americano, a cui la moto era in parte destinata: non serve essere esperti del mercato motociclistico statunitense per capire che per il pubblico della California dovesse essere poco appetibile una moto straniera che portava il nome di uno degli stati più noiosi del Mid-West!

A parte questa nota, resta comunque il fatto che l’idea non fosse in sé malvagia: in quegli anni la moto più venduta in USA era infatti la Honda Shadow, quindi anche Ducati avrebbe avuto la possibilità di ritagliarsi una piccola, ma interessante fetta di mercato. 

Del resto, il mercato delle medie cilindrate era molto più appetibile per un eventuale ingresso nel settore custom, rispetto a quello tradizionalmente presidiato dalla Harley-Davidson: questo specialmente se si era in grado di produrre una moto piacevolmente maneggevole senza grossi sforzi, usando parti e tecnologia preesistenti. 

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In questa foto del 1986, il grande Franco Farné è ripreso in sella all’Indiana 350. Sotto, un particolare del motore: non si può proprio dire che Ducati avesse lesinato con le cromature!

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Ma sarebbe riuscita Ducati nell’intento, in un settore, quello delle piccole custom, dove le altre competitor si chiamavano Suzuki Intruder, Yamaha Virago e Kawasaki Vulcan? Questa era la domanda chiave, soprattutto se consideriamo che, da un punto di vista dinamico, l’unica custom giapponese capace di equivalere la Ducati Indiana era la Intruder, mentre le altre non erano allo stesso livello. 

Purtroppo, però sappiamo che non andò proprio così e che, da un punto di vista commerciale, l’Indiana fu un vero e proprio fiasco. 

I motivi? Forse il sistema desmodromico, troppo complicato per un pubblico, quello delle moto custom, da sempre alla ricerca della massima semplicità? Forse il nome, la rete commerciale poco efficiente, oppure, molto più probabilmente, il prezzo

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Veramente ridotto il numero di esemplari prodotti dell’Indiana: probabilmente fu la stessa Ducati a crederci poco e a interrompere forse troppo presto la sua produzione.

Chi lo sa, resta il fatto che l’Indiana era una vera moto, spinta dal motore Pantah, il cuore sportivo delle Ducati di allora, incastonato nel telaio a doppia culla scomponibile con tubi a sezione quadra (in verità piuttosto brutti) dell’enduro Cagiva. Vi era ovviamente in esso qualche modifica, come il forcellone: nell’Elefant era imperniato nel telaio, mentre nell’Indiana il fulcro del leveraggio era posto nel basamento del motore.

La moto fu prodotta nelle cilindrate di 350, 650 e 750 cc, con il cilindro verticale ruotato di 180°, in modo che i carburatori si venissero a trovare all’interno della “L”, come già era avvenuto per la Elefant; il motore è reso più attinente al nuovo utilizzo grazie ad abbondanti cromature, compresi i coperchi delle cinghie di distribuzione. Il motore da 350 cc era accreditato di 38 Cv a 9250 giri e di una velocità prossima ai 150 Km/h, a fronte dei 54,4 Cv a 7000 giri e 170 Km/h della versione spinta dal Pantah 750. 

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Il design dell’Indiana era tutto sommato piacevole, anche se ovviamente non in linea con i gusti del ducatista classico. Chi l’ha avuta la ricorda comunque più per le sue doti di motore e di ciclistica, a dimostrazione di come offrisse un “pacchetto” ben riuscito.

Un punto forte della proposta era poi composto dalla ciclistica: ottimo il comportamento della forcella Marzocchi con steli da 40 mm derivata da quella dell’Elefant che, pur essendo piuttosto lunga, garantiva un comportamento inaspettato in frenata: era infatti caratterizzata da un ottimo feeling, senza accusare problemi di scorrevolezza o affondamento eccessivo, oltre che essere regolabile su cinque posizioni di precarico, così come i due ammortizzatori posteriori (regolabili nel precarico della molla) che risultavano sorprendentemente confortevoli, certamente più delle altre custom giapponesi. 

Ottimo comportamento sul misto

Ma ciò che risultava ancora più interessante era il comportamento dell’Indiana sul misto: dal momento che tre delle quattro rivali orientali diventavano addirittura pericolose quando si trovavano ad affrontare una curva appena sopra il limite cittadino, la guidabilità dell’Indiana era eccezionale, più vicina a quella di un’onesta sportiva che a quella di un carrozzone cromato. 

La posizione di guida era valida: normalmente, uno degli aspetti che porge il fianco alle critiche maggiori sulle custom è proprio l’ergonomia, che sembra fantastica quando si viaggia con il vento nei capelli, ma tremendamente scomoda dopo appena mezz’ora in sella. Invece, per l’Indiana la distanza tra manubri, pedane e sella era senz’altro quella giusta.

Inoltre, la quasi totale assenza di vibrazioni sul manubrio e su qualsiasi altra parte della moto, costituivano un vantaggio per chi avesse voluto utilizzare la moto per lunghi trasferimenti.

Sul fronte della piacevolezza di utilizzo, un ruolo di primo piano lo svolgeva il motore, dotato di ottime prestazioni in riferimento al settore, e sufficientemente elastico da riprendere velocità nel rapporto più alto a partire da 40 Km/h (grazie a una diversa scelta dei rapporti rispetto alle altre Ducati).

Insomma, l’Indiana era senz’altro una moto ben progettata, che offriva un livello di sicurezza e guidabilità superiore a tutte le sue avversarie, come dimostra anche il livello dell’impianto frenante, con il singolo disco anteriore del diametro di 260 mm supportato da una pinza Brembo a quattro pistoncini e il disco posteriore da 280 mm, sempre con pinza Brembo, ma a due pistoncini. Le ruote in lega avevano uno strano disegno a stella a tre punte, reso più interessante dal contrasto delle superfici in metallo con quelle in nero satinato. 

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L’impianto frenante era di buona qualità, come dimostra la pinza a quattro pistoncini. Notare l’elefantino Cagiva impresso sullo stelo della forcella.

Le misure dei cerchi erano, per tutte e tre le cilindrate, le stesse: 110/90×18″ all’anteriore e 140/90×15″ al posteriore. 

Anche la strumentazione seguiva il gusto generale della moto, con il contagiri e il tachimetro ben cromati, posti nel bel mezzo del manubrio ricurvo intorno al quale insistono anche gli indicatori di direzione, un bel faro rotondo e il clacson. 

Nella definizione della parte estetica, una parte importante la svolgono gli scarichi (due in due), cromati con il classico taglio a fetta di salame.

 Il risultato finale è piacevole, grazie al serbatoio non troppo inclinato, alla sella biposto su due piani sfalsati e alle fiancatine esteticamente ben raccordate alle infrastrutture: peccato solo per quei tubi del telaio

Certo, immaginiamo lo stupore per i ducatisti puri e duri dell’epoca che si videro il mitico bicilindrico Pantah, ricco di storia e successi sportivi, tutto cromato e inserito in un contesto che doveva apparire terribili ai possessori di F1 e similari!

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Veramente fantasiosa questa pubblicità dell’epoca che riprende il titolo di un famoso film del 1970 “Un uomo chiamato cavallo”, ambientato appunto nel West americano. Chiari quindi i riferimenti a un mondo fatto di libertà e di ampi spazi, gli stessi dove l’Indiana prometteva di condurre i suoi acquirenti.

Resta il fatto che questa interessante custom, come dimostra anche il grafico che riporta il totale delle moto prodotte, non abbia avuto successo, a dispetto del fatto che andava discretamente bene, anche se il motore più adatto si rivelò il 350, forte di un’indole più tranquilla che si sposava bene con la posizione di guida non certo aerodinamica. 

Se un tempo queste moto avevano valore pari a zero, oggi si assiste a un rinnovato interesse verso di loro, anche se è veramente raro trovarne una in vendita, proprio a causa della loro scarsa diffusione e per il fatto che molti esemplari sono stati modificati e cannibalizzati nel tempo dai loro insoddisfatti proprietari.

Foto di Micromega e archivio Ducati

Questo articolo ha 3 commenti.

  1. Girolamo Piazzolla

    Sono soddisfatto di essere in possesso di una Ducati Indiana su tutto,,, l’unico problema è quello di qundo si deve trovare un comune pezzo di ricambio e per una azienda come DUCATI ti senti dire ” NO NON SI TROVA DA NESSUNA PARTE!!!!!!!
    vedi il RINVIO DEL CONTACHILOMETRI
    o magari anche i disco freni e quant’altro!!!!!!!!

  2. Marco Piccinini

    La mia 750 una delle 251 color argento….grande divertimento, e quanto ti vedono in giro e ti chiedono se è una ducati vera…..

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