St2: la prima Sport Touring Ducati

St2: la prima Sport Touring Ducati

La ST2 è stata la prima rappresentante della famiglia Sport Touring Ducati. Un modello con delle valide carte da giocare.

Correva il “lontano” 1997, quando in casa Ducati fu presentata una moto che nulla aveva in comune con la filosofia della produzione di Borgo Panigale di quegli anni.

Si trattò di un coraggioso tentativo da parte dell’azienda italiana di entrare nel difficile e affollato settore delle turistiche sportive, da sempre dominato dalle marche giapponesi rappresentate in prima linea dalla Honda con la sua VFR.

Erano anche gli anni in cui un certo Miguel Galluzzi si era affermato come designer della Ducati, forte di un biglietto da visita dal nome Monster. Tuttavia, anziché a lui, questo nuovo progetto stilistico fu affidato a Pierre Terblanche.

Durante la presentazione, avvenuta a Jerez de la Frontera, la ST2 fu molto apprezzata dalla stampa specializzata, in particolar modo sotto l’aspetto prestazionale: in parte per le performance dell’unità motrice (la velocità massima dichiarata era di 225 Km/h), ma ancor di più per la risposta della ciclistica alle richieste pistaiole dei giornalisti più esigenti.

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La ST2 è ottima per i trasferimenti a velocità di crociera discrete, ma all’occorrenza sa sfoderare la sua indole sportiva.

In fin dei conti, il codice genetico della nuova nata era stato quasi completamente ricalcato dalle sorelle pluridecorate dai successi nelle competizioni: un granitico telaio a traliccio in acciaio al cromo molibdeno, un esuberante impianto frenante Brembo quasi sovradimensionato nell’adozione di pinze Serie Oro all’anteriore (per quei tempi una vera eccellenza su una moto turistica) e un reparto sospensioni – anche se non della stessa levatura di quelle utilizzate in pista – costituito da ottime Showa pluriregolabili, cosa che permetteva di adeguarne il settaggio in base al fondo, al tipo di andatura, di percorso e di carico; a questo riguardo c’è da richiamare l’attenzione sul sistema di leveraggi relativo al mono posteriore che assicurava un’azione progressiva.

Per finire, troviamo il mitico bicilindrico a due valvole con distribuzione desmodromica monoalbero che, per l’occasione, era stato portato, incrementando l’alesaggio, a 944 cc.

Un’altra peculiarità fu anche quella di affiancare, come già si era visto sul Paso 906 e 907, il raffreddamento a liquido all’unità motrice a due valvole che, grazie a dei coperchi insonorizzati e a degli scarichi con una voce un po’ più “civile”, garantiva un livello acustico tale da permettere viaggi meno roboanti.

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Linee tondeggianti poco riconducibili al family feeling Ducati e motore a due valvole raffreddato a liquido come sul precedente Paso: ecco il biglietto da visita della ST2, l’antagonista della Honda VFR proposta dalla Casa bolognese nel 1997.

Solo la frizione a secco non coadiuvava questo intento, ma in nome della sportività Ducati tale caratteristica è rimasta un must ancora per molti anni (addirittura, molti proprietari di questo modello montavano frizioni racing corredate dal relativo coperchio aperto per il raffreddamento e caratterizzate nell’acustica dal tipico sferraglìo).

Il tentativo di riuscire nell’intento di sbancare il settore turistico/sportivo fu poi rinnovato con l’adozione dei motori nati per i modelli sportivi: il 916 per la ST4 con una potenza di 105 Cv e il 996 per la Ducati ST4S, accreditato di ben 117 cavalli, una velocità massima dichiarata di oltre 250 Km/h e un reparto sospensioni sopraffino. In più, venivano proposti i modelli arricchiti dall’ABS.

Tutto questo, però, è servito solamente a spostare ulteriormente il barometro sul “molto sportivo”, ma non a incrementare drasticamente i numeri delle vendite.

Il canto del cigno della famiglia Sport Touring si è avuto con la ST3, che vantava la progettazione di un motore, forse il più appropriato della serie, dotato di termiche tutte nuove e innovative (tre valvole per cilindro, due di aspirazione e una di scarico, con distribuzione monoalbero) trapiantate sull’unità 1000 DS a doppia candela, nonché di un cupolino con un diverso, e ancor meno apprezzato, disegno del faro (ancora una volta ad opera del Centro Stile diretto da Pierre Terblanche) e una serie di adeguamenti tecnici e funzionali.

Anche quest’ultima proposta non ha, peraltro, cambiato di molto il destino di una “famiglia” poco fortunata che è di fatto uscita di produzione nel 2007, anche se il modello ST3 risulta ufficialmente ancora in listino.

Perché, dunque, una moto con una quantità di indiscutibili pregi e di considerevoli dotazioni non è riuscita a entrare nell’Olimpo delle più vendute? Innanzitutto l’estetica non ha mai fatto gridare al miracolo, pur essendo caratterizzata da una certa aggressività nel disegno della carenatura e del serbatoio.

Fin dalla presentazione, infatti, i modelli ST furono tacciati di scarsa personalità, specie se analizzati nella parte posteriore, ancor più martoriata dalla presenza di un orrendo paraspruzzi di plastica nera che contraddistingueva il primissimo modello (dalla versione del 1998 in poi, fortunatamente, fu tolto).

Un’altra motivazione risiede nel fatto che i puristi delle Rosse bolognesi richiedevano alle desmodromiche una connotazione drasticamente sportiva o, ancor meglio, supersportiva: quella, cioè, che i loro beniamini, tra i quali Giancarlo Falappa o Carl Fogarty al manubrio delle rispettive 888 e 916, avevano insegnato loro ad apprezzare.

Pur essendo, quindi, il rapporto turistico/sportivo spostato nettamente a favore della seconda voce, il ducatista Doc non era ancora pronto ad accettare un volo pindarico di tale portata da una Casa così blasonata nelle competizioni.

La componente prezzo ha poi fatto la sua parte. Venti milioni di lire nel 1997, che salgono fino a circa 14.200 Euro per l’ultima ST4S ABS (le borse laterali, inoltre, si pagavano a parte!), era una richiesta un po’ troppo elevata in confronto a quella per l’acquisto di un esemplare, ad esempio giapponese, di analoga impostazione, pur con tutto il fascino e la sportività Ducati.

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In pratica, il convincimento sembra essere che per portarsi in garage una sportiva 916 ci si può indebitare fino al collo, per una turistica, ben più carente in quanto ad appeal, invece no.

La guida della ST2 è estremamente piacevole, grazie alle doti della ciclistica e del propulsore raffreddato a liquido.

Osservando con attenzione la moto nel suo insieme, o ancor meglio confrontandola con una della produzione attuale, pur essendo caratterizzata dalla tradizionale impostazione generale, è interessante notare, a distanza di poco più di un decennio, di quanto drasticamente sia cambiata la progettazione e l’industrializzazione per una stessa tipologia di moto.

Appare evidente una progressiva semplificazione delle strutture e degli impianti (principalmente quello elettrico), la razionalizzazione delle carene e delle sovrastrutture e, con l’utilizzo sempre più diffuso delle tecnologie informatiche, l’ottimizzazione dei materiali e dei relativi spessori.

Tutte innovazioni che, oltre un notevole risparmio di peso, ne hanno comportato uno ben più importante in ordine di costi di produzione e, all’atto pratico, un indiscutibile incremento di affidabilità e quindi di immagine.

Se, durante la presentazione, i giornalisti avevano enfatizzato le grandi doti ciclistiche e stradali della ST2, non è affatto scontato, però, che il progetto fosse immune da difetti.

I difetti riscontrati

Tra i più lamentati riportiamo un trafilaggio d’olio (come nella tradizione delle vecchie generazioni di Ducati), in questo caso proveniente dall’accoppiamento della testa con il cilindro della termica posteriore: l’intervento consisteva nella spianatura delle superfici di contatto (ma non sempre il successo era assicurato).

L’impianto elettrico aveva qua e là qualche punto debole, come l’alternatore poco potente che fu oggetto in tempi brevi di un aggiornamento da parte della Casa; il regolatore di tensione che era posizionato in un punto soggetto agli elementi esterni (la presa d’aria per l’airbox) e quindi facilmente deteriorabile; alcune connessioni a baionetta che, non essendo sufficientemente sigillate, si ossidavano, riscaldavano e si fondevano.

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Come si vede dai caratteri utilizzati per la scritta Ducati sul serbatoio, la ST2 rappresenta un modello di passaggio tra la gestione Castiglioni e quella della Texas Pacific Group.

Con lo scorrere dei chilometri, infine, la frizione tendeva a perdere gradualità e a produrre uno sgradevole rumore al momento del rilascio della leva, inconveniente che veniva ovviato con l’inserimento di un paio di dischi leggermente convessi.

Relativamente alla leva, lo sforzo da applicare per azionarla era anch’esso, coerentemente con la tradizione Ducati, piuttosto consistente, e il comando idraulico di cui era dotata fu soggetto a una modifica al pistoncino per problemi di perdite. Tutti peccati da cui, comunque, furono esenti i modelli successivi.

Il comfort di marcia per guidatore e passeggero, al di là delle vibrazioni del bicilindrico, era assolutamente apprezzabile e la stabilità durante le veloci trasferte autostradali si è sempre rivelata eccellente anche in condizioni di pieno carico, con le borse laterali dedicate e quella da serbatoio.

Anche dal punto di vista di fruibilità del motore, pur non potendo vantare una potenza di punta esaltante (ci si attestava a circa 83 cavalli a 8500 giri), il due valvole bolognese regalava una entusiasmante elasticità di marcia, permettendo l’utilizzo delle marce alte anche alle bassissime velocità urbane e nel contempo le rabbiose accelerazioni che solo un bicilindrico due valvole sa esprimere (con la terza si andava ovunque!).

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Tra i principali difetti riscontrati sui primi esemplari, un fastidioso trafilaggio d’olio dal cilindro posteriore e la scarsa affidabilità del regolatore di tensione.

Riguardo all’argomento “utilizzo in città” o alle basse velocità, magari in un misto stretto, si deve registrare un certo limite nella maneggevolezza derivante dal peso non indifferente del mezzo, che in ordine di marcia superava i 220 Kg.

La ST2 ha ancora oggi il pregio di farsi guidare con soddisfazione anche dai motociclisti meno esperti, pur riuscendo a regalare delle belle soddisfazioni, specialmente nel misto veloce, a chi il gas è abituato ad aprirlo di più.

Una volta presa confidenza con il peso, infatti, gli angoli di piega sono sorprendenti, anche perché il pilota trova subito una posizione molto efficace ed ergonomica, giustamente caricata sul manubrio e facilitata negli spostamenti in sella dal serbatoio piuttosto stretto e profilato.

In velocità, un elemento di disturbo era rappresentato dalle turbolenze al casco provocate dal cupolino, alle quali si tentava di rimediare installando un plexiglas leggermente rialzato.

Visto che siamo entrati in argomento ricambi, è necessario ricordare che la ST2, in quanto di produzione Ducati, aveva un’interminabile lista di parti aftermarket, ufficiali e non, a cominciare dagli immancabili kit di provenienza Ducati Performance composti dagli scarichi Termignoni montati in simbiosi con il filtro dell’aria più permeabile e con una Eprom dalle caratteristiche più aggressive, per finire con una quantità inverosimile di accessori dedicati sia all’aspetto sportivo che a quello turistico (portapacchi, bauletti, borse laterali e da serbatoio).

Ai giorni attuali, la ST2 riscuote ancora un certo interesse nel caso si voglia effettuarne la trasformazione in un mezzo da utilizzare in pista per le gare riservate ai bicilindrici a due valvole, forte del decantato propulsore, generoso ai medi regimi, e di una ciclistica già di base performante (è solo necessario alleggerirla un po’).

Per il motociclista, poi, che vuole spendere poco e che vuole viaggiare comodo a bordo di una Ducati vera, si trovano molte valide proposte (specialmente per i modelli dal 2000 in poi) a prezzi veramente allettanti.

Non dimentichiamoci che, seppur datata, la ST2 vanta consumi veramente contenuti e rispetta quanto meno la normativa Euro 1.

Foto di Giovanni del Bravo

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