Ducati 916: monografia – prima parte

Ducati 916: monografia – prima parte

Il primo di tre articoli dedicati ad un’icona indiscussa della storia motociclistica mondiale, nata dal genio del Maestro Massimo Tamburini.

Se dicessimo che nel mondo delle supersportive si può tranquillamente parlare di un’era prima della Ducati 916 e di un’altra post, non diremmo niente di esagerato. La 916, infatti, è stata un vero e proprio spartiacque nel settore delle moto sportive, e non solo.

Inoltre, ha rappresentato, insieme al Monster, il modello della rinascita commerciale di Ducati, mettendo le basi per quello che è oggi l’azienda di Borgo Panigale, ovvero un marchio di un tale appeal e successo che solo a ipotizzarlo agli inizi degli anni Novanta si sarebbe stati presi per dei simpatici e visionari mattacchioni.

916 e Monster, due colpi da maestro

Da una situazione industriale difficilissima, grazie all’acquisizione della Cagiva dei Fratelli Castiglioni, Ducati riuscì a piazzare, fra il 1993 e il 1994, un uno/due di proporzioni magistrali: da un lato, la nascita di un vero fenomeno commerciale e di stile come il Monster, dall’altro la sportiva che ogni appassionato non poteva che sognare di avere nel suo garage: la 916, ovvero una moto da corsa finalmente disponibile per tutti, una soluzione senza compromessi, una linea e un design inconfondibili che è stata un punto di riferimento per tutte le sportive dei decenni seguenti.

A monte di tutto ciò la genialità di due personaggi come Miguel Galluzzi, ovvero chi pensò di liberare la Ducati 851 dalle sue carene per lasciare la briglia sciolta a una moto che faceva dell’essenzialità la sua parola d’ordine, e quello che tutti poi definiranno semplicemente come il “Maestro”, ovvero Massimo Tamburini.
La 916, infatti, nasce dalla sua ispirazione, dall’esperienza di chi aveva contribuito a fondare una Casa come la Bimota, dalla quale poi era stato cacciato per approdare poi alla corte dei Fratelli Castiglioni e della loro Cagiva.

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Ovviamente la 916 ha un ruolo da protagonista nel Museo Ducati: a farle da cornice due superbi modelli come la 900 Superlight e la 851 Tricolore.

Pensare a loro come quei signori rinascimentali che davano alloggio, riparo e commissioni ai grandi maestri dell’arte italiana è senz’altro esagerato, ma non è poi così lontano dalla realtà se pensiamo che a Tamburini fu lasciata carta bianca per la realizzazione della 916 Ducati, che infatti fu progettata e realizzata in modo autonomo, pensando esclusivamente al risultato finale senza interessarsi troppo di budget e studi di mercato.

In effetti, un personaggio pignolo ed esigente, fino a livelli quasi maniacali, come Tamburini non poteva essere imbrigliato in una logica aziendale, doveva essere lasciato libero di esprimersi: il risultato di questa impostazione, agli antipodi di quella che oggi è la metodologia applicata nella realizzazione di un nuovo modello, fu tale da riscuotere un incredibile successo di pubblico e di critica, proprio come si dice per i film che hanno segnato la storia del cinema.

Lo sviluppo della Ducati 916

Nel 2001, l’Ing. Andrea Forni, attuale Responsabile Tecnico di Ducati Motor, accettò di scrivere per noi un lungo articolo in cui raccontava la genesi e lo sviluppo, ovviamente vissute dalla parte della Casa di Borgo Panigale, della Ducati 916. Obbligatorio, quindi, riportarne qui un estratto, in quanto, a parte Massimo Tamburini, non ci potrebbe essere persona più idonea per affrontare tale argomento.

Non so nemmeno io quando sia iniziato esattamente il progetto della 916. Quando arrivai in Ducati, nel 1988, si sentiva già parlare di un certo progetto definito “Rimini”. Era chiamato così perché la CRC (Cagiva Research Center) che gestiva quella fase del progetto, allora aveva sede a Rimini. Pertanto, a quel tempo, la futura moto sportiva che avrebbe dovuto sostituire la serie 851/888 veniva definita convenzionalmente Ducati Rimini.

In attesa di stabilirne la denominazione commerciale, i vari progetti, allora come oggi, venivano identificati con un numero di progetto, ma spesso un “soprannome” più o meno significativo nasceva spontaneamente, e dopo un po’ veniva utilizzato praticamente da tutti.

A quel tempo l’Ingegner Bordi (che allora era Direttore Tecnico del Gruppo Cagiva) si muoveva continuamente tra le tre sedi del Gruppo dove si eseguivano i progetti (Bologna, Varese e, appunto, Rimini) e pertanto si recava spesso alla CRC per discutere con Tamburini, Parenti e tutti gli uomini del Centro Ricerche le varie specifiche della futura Ducati Rimini.

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Un’immagine storica: Massimo Parenti e Massimo Tamburini al lavoro presso la sede della CRC.

Nella fase di messa su carta (anzi su CAD) del progetto lo accompagnavano, a volte, l’allora Responsabile dell’Ufficio Tecnico Mengoli e alcuni membri dell’Ufficio Tecnico Ducati. Successivamente, la CRC si occupò anche della costruzione fisica dei primi 7 prototipi e, all’inizio del ’92, spedì a Bologna la prima moto completa per il progetto e la costruzione del prototipo del cablaggio (che, in parte, viene fatto in opera) e per la analisi del layout dei vari gruppi funzionali (sistema iniezione, impianto raffreddamento, ecc.).

Una volta realizzati i cablaggi, i primi prototipi vennero messi in strada e iniziarono i collaudi.
Le prime prove su strada vennero eseguite direttamente dagli uomini del CRC (anzi, presumo dallo stesso Tamburini), e la prima occasione in cui vennero coinvolti i collaudatori della Ducati fu una comparativa a 3 tra il primo prototipo della futura 916, la migliore moto che aveva in produzione la Ducati a quel tempo (la 888 SP) e quella che reputavamo essere allora la migliore moto sportiva della concorrenza: la Honda CBR 900 RR Fireblade che la Ducati aveva acquistato specificamente per fare del “benchmarking”.

Comparativa tra Ducati 916, 888 SP e CBR 900 RR Fireblade

Tale comparativa venne eseguita nel luglio del ’92 dallo stesso Massimo Tamburini e dai collaudatori della Ducati Mauro Dal Fiume e Davide Bianconcini: lo scopo era verificare se il progetto di base fosse “sano” e se si potesse procedere con il lavoro di messa a punto senza dover rivedere o correggere una o più scelte di base.

Inutile dire come il progetto fosse ben più che sano!
Verso la fine del ’92, una prima moto fu spedita a Bologna e cominciò a macinare chilometri su strada per le verifiche di affidabilità e, poco dopo, un altro paio vennero usate per la messa a punto dei sottogruppi e dei componenti di nuova progettazione. Un quarto prototipo, infine, venne consegnato al Reparto Corse per l’attività di loro competenza. […] Molte attività di perfezionamento vennero svolte nel corso del ’93, ma certamente una delle più complesse fu la taratura delle sospensioni.

Le prove vennero svolte, come al solito, sia su strada che su pista, ed ebbero il loro epicentro nel periodo giugno-luglio 1993.
Le prove su strada si svolsero sul percorso preferito da Tamburini: la strada del Passo di Viamaggio (che porta da Rimini a S. Sepolcro). Il percorso è quello tipico di un passo appenninico “per smanettoni Emiliano-Romagnoli D.O.C.” (come numerosi altri, che non cito, tanto tutti li conoscono).

E’ ovviamente dotato di tutte le caratteristiche necessarie per rendere una strada teatro ideale della prova di una moto: curve strette e veloci, tornanti, saliscendi, accelerazioni e staccate sullo sconnesso, curve in rapida sequenza: insomma tutto quello che serve per potere mettere alla frusta una moto. I “Test Riders”, nell’occasione, furono lo stesso Tamburini (ovviamente), i collaudatori della Ducati Davide Bianconcini e Paolo Carta, e il sottoscritto.
“Guest Star” della seduta di prove furono i tecnici della Showa, Mr. Kawahara e Mr. Gotoh, che, con uno spirito di adattamento e un entusiasmo decisamente encomiabili, lavorarono al nostro fianco nella mini officina “a cielo aperto” che avevamo allestito nello spiazzo davanti al Ristorante che sta esattamente sul passo.

Probabilmente è opinione comune che gli Italiani siano abituati a lavorare in condizioni un po’ improvvisate e “ruspanti”, mentre invece i Giapponesi, chissà perché, dovrebbero non trovarsi troppo a loro agio: in realtà, i due tecnici della Showa non soltanto erano perfettamente integrati con noi, ma penso che si siano anche divertiti a smontare e rimontare forcelle e ammortizzatori su un tavolo di legno pieghevole, su un prato all’ombra degli alberi, e con il gradevole panorama degli Appennini d’estate alle loro spalle.

E’ inutile dire che le prove si svolsero durante la settimana, nei giorni feriali, altrimenti saremmo stati circondati da centinaia di “smanettoni locali”, animati da curiosità e sano spirito di emulazione.

Prove effettuate senza ammortizzatore di sterzo

Ricordo che, nonostante l’ammortizzatore di sterzo fosse già previsto come primo equipaggiamento, Tamburini volle condurre tutte le prove con moto che ne erano prive, per essere certo che il “feedback” che i tester ricevevano dai mezzi fosse frutto esclusivo delle caratteristiche ciclistiche della moto stessa, e non “filtrate” dalla presenza dello “steering damper”. In altre parole, la moto doveva funzionare egregiamente anche senza quell’oggetto che, pur essendo utilissimo (anzi indispensabile in certi frangenti come per esempio l’uso in competizione) a volte viene utilizzato come una “pezza” per coprire certe carenze di base (e non faccio nomi, tanto gli appassionati già li sanno).

Terminate le prove su strada, passammo subito dopo a quelle in pista. Le prove in pista si svolsero (inutile dirlo) a Misano, e, ovviamente, a guidare la moto in quell’occasione non poteva essere altri che “Il Re di Misano”, Davide Tardozzi (allora era ancora in attività).

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L’Ing. Forni impegnato nei primissimi test di sviluppo della 916 all’autodromo di Misano.

Tardozzi si impegnò al massimo per garantire una messa a punto che potesse consentire a chiunque, per quanto veloce potesse essere, di estrarre il massimo dalle potenzialità della moto. Vorrei solo ricordare che, nel 1993, con le gomme stradali di allora, con la moto in configurazione assolutamente “commerciale” (frecce, specchi, marmitte chiuse, filtri, perfino la “trousse” degli attrezzi sotto la sella) e con un motore che non era certo potente come quello di una 996 SPS di oggi, Davide girava sul piede di 1’43” (e chi ha girato a Misano con una moto di serie capisce cosa significa)

Ducati 916 by Febur

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Nel 1998 presentammo una 916 elaborata da Febur che era particolarmente ricca di contenuti tecnici.
Si parte subito dalla ciclistica, con il trattamento della forcella al TiN per aumentarne la scorrevolezza e con la sostituzione del mono posteriore con un pregiato Öhlins. Considerevole poi lo sforzo per diminuire il peso con la scelta di montare dei Marchesini in magnesio, così come di privilegiare una carenatura completa in carbonio.
Direttamente realizzato in Febur il nuovo forcellone in magnesio, più lungo di ben 19 mm, scelta effettuata per scaricare al meglio l’esuberante forza del motore, direttamente proveniente dal campionato Superbike, più esattamente un 955 cc utilizzato da Kocinski nel 1996! Obbligatorio, in questo caso, l’utilizzo di radiatori maggiorati dell’olio e dell’acqua, come sempre di produzione Febur.
Tutta la bulloneria è in titanio e ergal, così da consentire un ulteriore risparmio di quasi 4 Kg complessivi, dato che contribuisce di par suo a ridurre il peso totale a circa 160 Kg.
In questo caso, fu anche effettuata un prova in pista di questa particolare special, dove ovviamente espresse tutta la sua cattiveria agonistica, pur in un contesto di maneggevolezza ed equilibrio complessivo. Una moto per pochi, ovviamente, ma che aveva la funzione di essere una vetrina per tutti quegli appassionati, e non erano pochi, che volevano aggiungere ulteriore pepe alla già gustosa ricetta della 916!

Purtroppo tanto impegno portò anche a un paio di scivolate (la moto è fatta così) e dopo la seconda Davide (pur non essendosi fatto nulla di serio) era un po’ acciaccato per continuare, cosicché nelle ultime fasi della sessione di prove a guidare la moto fu il responsabile dei collaudi della Pirelli, il mai abbastanza ringraziato Salvo Pennisi.
Salvo e il suo staff erano presenti perché, per prendere i classici due piccioni con una fava, alle prove di sospensioni avevamo abbinato anche prove di pneumatici. Le prove di gomme erano già terminate e Pennisi, che era quindi momentaneamente in stand-by, fu ben felice di eseguire le ultime verifiche necessarie (e fu anche decisamente provvidenziale). Il risultato del lavoro di quei giorni è tutt’ora sotto gli occhi di tutti: la forcella Showa è la stessa che montiamo ancora oggi su molte versioni della 996/748 e che ha contribuito alla creazione della fama della moto, nonché alla vittoria di qualche centinaio di gare tra Sport-Production, Supersport e così via. […]

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Ancora oggi il design della 916 è attualissimo e non ha perso neanche una goccia del suo splendore corsaiolo. Del resto, la 916 ha istituito un vero e proprio canone estetico a cui moltissimi modelli, anche di attuale produzione, hanno fatto e fanno riferimento: il doppio faro anteriore, gli scarichi sottosella e il monobraccio, infatti, sono diventati tratti distintivi per moltissime moto sportive.

Lo sviluppo della moto procedeva portando avanti, in parallelo, due versioni, la versione “Strada” (a quell’epoca ancora monoposto) e la versione “SP”, che come tradizione per la Ducati aveva i seguenti obiettivi: 1) costituire il “modello” (costruito e venduto in un numero adeguato di esemplari, in conformità alle norme della F.I.M.) da cui derivare la moto per correre (possibilmente con successo) nel mondiale Superbike; 2) partecipare, con ovvie ambizioni di vittoria, al Campionato Italiano Sport-Production (e agli equivalenti campionati esteri); 3) rappresentare, per lo “zoccolo duro” dei più incalliti smanettoni da pista, il mezzo più efficace, ma pur sempre utilizzabile anche da un utente “normale”, per potere dare il meglio di sé stessi tra i cordoli di un circuito.
Inutile dire che, per poter assolvere egregiamente a questi compiti, la versione “SP” doveva necessariamente avere delle differenze di rilievo rispetto alla versione base. Tali differenze scaturiscono sempre dal compromesso tra la necessità di enfatizzare tutte le prestazioni (sia di motore che di ciclistica) senza però raggiungere costi tali da impedire, in pratica, il successo commerciale del modello. E anche qui non faccio nomi, ma gli appassionati sanno che le versioni “targate” di certe moto partecipanti al mondiale Superbike, per la strada non le ha mai viste nessuno, mentre di 851, 888, 916, 748, e 996, nelle varie versioni SP ed SPS ne hanno viste tante! […]
Per quanto riguarda i primi due obiettivi (partecipazione alle gare di Superbike e Sport Production), tutti sanno come è andata. Per quanto riguarda il successo commerciale della versione SP, voglio solo ricordare che, nonostante il prezzo decisamente “da amatore”, nel solo primo anno di produzione vennero costruite e vendute oltre 600 916 SP (contro le 200 necessarie per omologare il mezzo nella categoria Superbike).
Alla fine, dopo circa 5 anni di lavoro tra studi, disegni, calcoli, costruzione di prototipi e attrezzature, prove, modifiche e quant’altro, la moto venne presentata ufficialmente al salone di Milano del 1993.

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Tutto sulla 916 ha un sapore racing: anche il cruscotto vede il tachimetro separato dal contagiri, così da potere essere facilmente eliminato in caso di configurazione pista della moto.

Come tutti ricorderanno, il successo di pubblico e di critica fu subito strepitoso. In quasi tutti i concorsi del tipo “moto dell’anno” o simili, indetti dalle varie testate giornalistiche del settore, la 916 trionfò con ampio margine sulle concorrenti: i commenti della stampa, anche e soprattutto quella straniera, furono entusiastici.
Ricordo, in particolare, il numero di dicembre 1993 della rivista inglese Fast Bikes, in cui l’articolo di presentazione della nuova moto era intitolato: “9 – 1 – Sex”.
E’ facile immaginare il contenuto.
La prova stampa si svolse a Misano nei giorni 26, 27 e 28 gennaio 1994. Era freddo, ma c’era il sole e la pista era asciutta e pulita. Avevamo a disposizione 4 moto per circa 50 giornalisti, venuti da tutto il mondo. Quattro o cinque di loro caddero, gli altri decantarono entusiasticamente le doti della nuova Ducati.
Per noi tecnici, poteva essere il lieto fine di una bella storia. Invece era solo l’inizio…”.
Fine prima parte

Foto di Archivio Ducati e Alessio Barbanti per Electa

 

Questo articolo ha un commento

  1. Marco

    “Le prove vennero svolte, come al solito, sia su strada che su pista, ed ebbero il loro epicentro nel periodo giugno-luglio 1993.
    Le prove su strada si svolsero sul percorso preferito da Tamburini: la strada del Passo di Viamaggio (che porta da Rimini a S. Sepolcro). Il percorso è quello tipico di un passo appenninico “per smanettoni Emiliano-Romagnoli D.O.C.” (come numerosi altri, che non cito, tanto tutti li conoscono).”

    Gentilissimi, la città è Sansepolcro, tutto attaccato, grazie!
    Marco, possessore di una Ducati 748S del 2002

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