Monografia Ducati 916 – seconda parte

Monografia Ducati 916 – seconda parte

In questo articolo l’analisi tecnica della Ducati 916. Scopriamo come come Massimo Tamburini giunse alla definizione di questo prototipo.

Nel precedente articolo abbiamo descritto abbondantemente, grazie alla testimonianza dell’Ing. Forni, il lavoro svolto dai tecnici Ducati, in sintonia con Massimo Tamburini e il suo staff, per lo sviluppo della 916. In questa seconda parte della nostra monografia dedicata a questo fondamentale modello dobbiamo però fare un passo indietro, ovvero scoprire come Tamburini giunse alla definizione di tale prototipo.

Perché quello specifico telaio, perché quel monobraccio, quella cilindrata, quali i motivi di quelle particolari quote ciclistiche? Andiamo, insomma, a scoprire insieme come Massimo Tamburini arrivò a definire la 916.
La stagione Superbike 1993 aveva chiaramente evidenziato come il progetto 851/888 avesse ormai fatto il suo tempo; un concetto ribadito anche dallo stanco progredire delle vendite e di come Ducati non fosse più in grado di sostenere la concorrenza della Case giapponesi con le loro performanti quattro cilindri.

Detto questo, il progetto 916 fu affidato dai fratelli Castiglioni, allora proprietari dell’azienda bolognese, a Massimo Tamburini e alla sua CRC, che ebbe così praticamente carta bianca per lo sviluppo della nuova supersportiva; beh, quasi carta bianca, perché gli fu “imposto” il telaio a traliccio (il tecnico riminese era infatti un sostenitore dei telai con travi di alluminio, con i quali aveva avuto modo di effettuare una grande esperienza in Bimota) e il forcellone monobraccio, in funzione di un’ipotetica partecipazione al campionato Endurance o comunque nell’impiego sportivo.

Due condizioni: telaio a traliccio e forcellone monobraccio

Tamburini quindi partì dalla definizione del telaio a traliccio, per il quale puntò a realizzarne uno dotato di maggiore rigidità rispetto al passato, adottando tubi di maggiore diametro, ma soprattutto con una struttura più razionale, formata da una serie di triangoli, forma geometrica notoriamente indeformabile.

Rinforzo subirono anche il cannotto di sterzo e il perno ruota. Altro obiettivo fu quello di avere una ciclistica più compatta rispetto alle precedenti quattro valvole (in effetti l’interasse passò dai 1430 mm della 888 ai 1415 mm della 916), con un’ottimale distribuzione dei pesi (50% e 50% fra asse anteriore e posteriore), razionalizzando la collocazione di tutti gli accessori (airbox, scarico, radiatori, centralina e batteria); per raggiungere tali obiettivi, anche il motore giocò la sua parte, in quanto Tamburini stabilì di ruotarlo in avanti di 3° gradi per cui nella 916 il propulsore accentuava la sua caratteristica di bicilindrico a L.

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Vediamo come la 916 senza il suo vestito non sia particolarmente attraente, a causa dei numerosi tubi del raffreddamento e della batteria posizionata molto in avanti, sul lato destro. Piacevolezza che poi riconquista in pieno con le sue carene che le attribuiscono una veste di grande carattere e personalità.

Sul fronte della rigidità del telaio, poi, giocò un ruolo fondamentale l’intuizione di come lo spazio adibito a ospitare l’airbox potesse svolgere un ruolo strutturale semplicemente chiudendo con un pannello rigido in solidissima fibra di carbonio il fondo dello stesso, compreso fra i due tubi superiori e principali del telaio: in questo modo, così pannellato, il telaio stesso incrementava notevolmente la sua rigidità.
Al fine di ridurre l’avancorsa, Tamburini studiò una geometria di sterzo regolabile di 1° da 23°30’ a 24°30’ operando per mezzo di eccentrici posti nel cannotto. Il risultato fu una moto con la ruota anteriore significativamente più arretrata, con un baricentro più basso, grazie al riposizionamento di vari accessori, come la batteria ora posta lateralmente, vicino al cilindro orizzontale.
Per le sospensioni furono scelte unità giapponesi, con una forcella Showa a steli rovesciati da 41 mm, mentre al retrotreno splende la bellissima struttura del monobraccio in alluminio progettato dall’Ing. Albesiano, allora in Cagiva, sui cui lavora un mono sempre Showa, a gas e pluriregolabile.

In più, tale forcellone, oltre a essere molto leggero, aveva anche il vantaggio, rispetto al bibraccio della 888, di essere ben 18 mm più corto
Una volta definita la struttura di massima, Tamburini provvide, di par suo, a vestire la moto con l’abito più attillato possibile, limando ogni millimetro utile per ottenere una soluzione più compatta, con sella ora a solo 780 mm di altezza contro gli 800 mm della precedente versione.

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L’affinamento della struttura proseguì con la definizione del nuovo impianto di scarico, caratterizzato dalla bella e particolare uscita dei due terminali da sotto la sella: in questo modo, si liberava completamente la parte posteriore della ruota, lasciando in bella vista la bellissima forma dei cerchi della Brembo da 17″ e del monobraccio, conseguendo così una perfezione stilistica assolutamente innovativa per l’epoca.

Insomma, un enorme e pignolo lavoro di affinamento che, basandosi sulle caratteristiche tradizionali Ducati, ridefiniva completamente il concetto di moto sportiva, realizzando un insieme così omogeneo che rimase praticamente invariato per tutta la lunga storia di questa moto, proseguita negli anni in numerose versioni, intatta fino all’avvento della 999.

A concludere l’opera, una componentistica di primo livello, scelta per rifinire una ciclistica così finemente progettata, come, ad esempio, il prezioso e performante impianto frenante Brembo Oro.

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Il disegno dei bellissimi cerchi a tre razze realizzati dalla Brembo.

Carl Fogarty e la Ducati 916

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Si dice 916 e si pensa subito a Carl Fogarty, il pilota britannico che in sella a questa moto dominò e vinse nel campionato mondiale Superbike del 1994 e 1995. Nato a Blackburn nel 1966, Carl si mise in luce, come tutti i piloti britannici, nelle durissime competizioni su strada, fra tutte il Tourist Trophy dove si impose nel 1990, e la Nort West 200 che dominò nel 1993 in sella alla Ducati 888.
Uomo di poche parole, Fogarty è rimasto famoso per quei due occhi da tigre che fiammeggiavano all’interno del casco, dimostrazione evidente di una grinta e determinazione superiore.
Nell’estate del 1990, in sostituzione di un infortunato Chili, Foggy arriva sul palcoscenico più importante, quello delle 500 GP dove se la deve vedere con campioni del calibro di Lawson, Rainey, Gardner e Doohan. Dopo aver ottenuto buoni risultati in questo difficilissimo contesto, il buon Carl deve però “ripiegare” sul campionato Superbike dove, in sella a una vetusta RC30 non può niente contro lo strapotere della 888 di Doug Polen. Ed è con questa moto, anche se correndo per una scuderia privata, che a Donington 1992, con grande sorpresa di tutti gli addetti ai lavori, Fogarty taglia per primo la seconda manche del GP d’Inghilterra.
Qui prende il via una storia che conoscono tutti: diventa pilota ufficiale Ducati nel 1993, quando ha Giancarlo Falappa compagno di team, lasciando subito il segno, arrivando secondo, in sella alla 888, dietro alla Kawasaki di Russell.
Nel 1994 arriva però la 916, il che consente a King Carl di laurearsi campione del mondo, nonostante una brutta frattura al polso destro rimediata a Hockenheim. Si ripeterà nel 1995, in una competizione senza storia: nelle prime dodici manche, Carl vince sette volte mentre nelle altre cinque arriva secondo! La vittoria finale diventa una pura formalità.
L’incredibile binomio Foggy-916 si interrompe nel 1996 con la decisione del pilota britannico di accettare la principesca offerta della Honda, con la quale disputerà però solo un buon campionato, giungendo quarto nella classifica finale che vedrà trionfare Troy Corser sempre in sella alla 916. Parentesi breve quella con Honda, perché già nel 1997 torna in Ducati con la quale, stavolta in sella alla 996, vince nuovamente sia nel 1998 che nel 1999.

E il motore?

A completare l’opera ci pensò poi il propulsore messo a punto all’interno del reparto esperienze Ducati, in tutto e per tutto degno di questa ciclistica. 
L’incremento di cilindrata, rispetto alla 888, si ottenne portando la corsa da 64 a 66 mm, fermo restando l‘alesaggio a 94 mm. Il risultato fu un motore capace di girare molto in alto, ma allo stesso tempo ricco di una coppia veramente importante anche ai regimi medio-bassi, con una progressione travolgente fin dai 4000 giri che si concludeva solo verso i 10.000: con queste credenziali, il bicilindrico si poneva in posizione di vantaggio rispetto ai quattro cilindri dell’epoca.

Il propulsore era dotato di una potenza massima pari a circa 114 Cv, raggiunti a 9000 giri, ma che poi manteneva inalterati, appunto, fino ai 10.000 giri. Un risultato che, abbinato a un ciclistica così sopraffina, rendeva la 916 il nuovo punto di riferimento per tutto il settore delle moto ad alte prestazioni.

Rispetto al passato, però, il motore manteneva invariati molti parametri, come la dimensione delle valvole, il rapporto di compressione e il gruppo di alimentazione della 888 Strada. L’analisi tecnica del motore si può concludere con la nota del raffreddamento a liquido, la presenza di un ulteriore radiatore/scambiatore per il circuito dell’olio, l’alimentazione e l’accensione gestite da una centralina Weber, l’iniezione con corpi farfallati da 50 mm con iniettore singolo e la frizione a secco, altro marchio di fabbrica di Ducati.

Una vera moto da pista adatta all’uso su strada

Su strada e in pista, la 916 base si rivelò moto di enorme soddisfazione per il pilota che la sapesse sfruttare in tutte le sue potenzialità, una vera moto da pista, senza compromessi, adattata all’uso su strada. Come tale, per essere sfruttata al meglio, richiede una messa a punto ottimale, in quanto è una moto molto sensibile allo stile di guida e alle regolazioni, una lama che incide senza perplessità le traiettorie, tagliente negli inserimenti, che consente di ottenere angoli di piega incredibili: insomma, una moto da guidare sempre con la tuta addosso!

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Agile e aggressiva, la 916 è studiata per ospitare al meglio il suo pilota purché questo, date le misure estreme del triangolo che si crea fra sella, manubrio e pedane, non sia troppo alto, in questo ricalcando la filosofia delle moto da gara, dove ogni millimetro è finalizzato alla corretta distribuzione del peso fra anteriore e posteriore, al basso baricentro e a una posizione di guida che faccia “sentire” l’avantreno al pilota.

Il tutto, poi, con il supporto di un motore sempre pronto a spingere con forza fuori dalle curve e capace di una velocità di punta pari, se non superiore, a quella delle quattro cilindri giapponesi: un insieme che fece sognare gli smanettoni di 25 anni fa che finalmente potevano guidare una moto che veramente aveva poco da invidiare a quella che, già nel 1994, fece il suo esordio vincente nel mondiale Superbike.

Certo, sulle sue caratteristiche di guida ci sarebbe molto da dire, anche perché ovviamente non mancavano le controindicazioni di tutta questa sportività senza compromessi: ma di questo parleremo nella terza parte di questa serie di articoli dedicati alla 916.

foto di Archivio Ducati e Alessio Barbanti per Electa

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